Posti accreditati: 14; Posti liberi: 0; Lista d’attesa: 2

la comunità

oggi

Oggi la “Marco Riva” segue esattamente lo stesso metodo elaborato da don Isidoro, con l’unica differenza che, come previsto dalla legge attuale, i nuovi casi vengono segnalati dai Sert (i servizi sanitari pubblici per le tossicodipendenze) e non provengono più dal centro di ascolto di via Gavinana, ormai chiuso.

È cambiata anche la tipologia dei pazienti: ai giovani eroinomani si sono sostituiti uomini di mezza età rovinati, oltre che dall’eroina, da altre sostanze nocive come cocaina, hashish, marijuana, acidi e alcol.

A monte di ogni ricovero si situa la libera scelta degli ospiti, che visitano la comunità e vengono informati sulle regole della convivenza e sulla natura della terapia. Se accettano di entrarvi, allora si predispone il piano di riabilitazione, che viene personalizzato sulle esigenze di ciascun ospite e predisposto sulla base dei colloqui con l’interessato e della relazione dei Sert.

La durata stessa del trattamento varia in funzione delle personali esigenze di riabilitazione. In genere, si rimane alla “Marco Riva” tra i 6 e i 36 mesi, anche se per la maggior parte degli ospiti la permanenza dura un anno e mezzo. Il percorso si sviluppa attraverso tre fasi: dall’accoglienza, al trattamento terapeutico, all’inserimento lavorativo. Se al termine del periodo programmato si verifica che il residente ha raggiunto gli obiettivi prefissati, allora la terapia può considerarsi conclusa, altrimenti essa viene prolungata in funzione delle necessità.

Lungo tutto l’arco del percorso di recupero, gli ospiti risiedono stabilmente in Cascina e riprendono i contatti con il mondo esterno gradualmente e solo nell’ultima fase del trattamento.

La comunità di don Isidoro oggi arriva a recuperare il 36% dei suoi ospiti. Ma le statistiche non dicono tutto: numerosi sono i pazienti che hanno lasciato la comunità senza essere completamente ristabiliti e che, seguiti dai volontari della “Marco Riva”, sono comunque riusciti a guarire.

il

metodo

L’intero lavoro di recupero ancora oggi praticato alla “Marco Riva” è impostato sul progetto terapeutico elaborato da don Isidoro, che l’ha condensato in un breve testo dal titolo: “Dallo sballo all’empatia. Diagnostica e terapia della tossicodipendenza”, pubblicato postumo.

Il programma è frutto di un intenso studio che don Isidoro praticava di notte su testi di psicologia, filosofia e medicina, rubando il tempo al sonno.
Il metodo di recupero della “Marco Riva” si basa su due pilastri: la logoterapia e l’ergoterapia.

Con la prima si intende il lavoro sulla comunicazione, che per un tossicodipendente incentrato esclusivamente sull’edonistica ricerca dello “sballo” procurato dalle sostanze stupefacenti, si impoverisce e si riduce fino all’estremo. La logoterapia si sviluppa attraverso vari appuntamenti periodici: due riunioni di gruppo settimanali con il terapeuta e l’educatore sulla comunicazione e il controllo dell’emotività, colloqui individuali col terapeuta, incontri di verifica settimanale sull’andamento gestionale della comunità. Attraverso il dialogo, il confronto e l’allenamento alla parola, i ragazzi imparano a riflettere su se stessi e a formare un attendibile quadro della propria personalità, recuperando un primo contatto con la realtà.

Oltre agli incontri più spiccatamente terapeutici, don Isidoro avviò la tradizione, tutt’ora in uso, di dedicare qualche sera della settimana all’approfondimento degli argomenti più vari: musica, cinema, educazione civica, matematica, meccanica, sicurezza sul lavoro e molto altro.

Oltre che sul potere terapeutico della parola, don Isidoro costruì il suo metodo di riabilitazione sul valore del lavoro, ovvero sull’ergoterapia. Questo aspetto gli stava particolarmente a cuore e per diversi motivi: innanzitutto, il lavoro amplifica i benefici della logoterapia, perché quando si costruisce qualcosa assieme è necessario parlarsi e la comunicazione spezza l’isolamento, riducendo il rischio di depressione. Il lavoro insegna la fatica, che è ciò che il tossicodipendente vorrebbe evitare costruendosi un mondo di piaceri fittizi che, però, non può reggere il confronto con la realtà. Il lavoro responsabilizza, perché è necessario maneggiare con attenzione attrezzi potenzialmente pericolosi e perché del risultato delle proprie fatiche bisogna rispondere ai committenti. Il lavoro sviluppa le capacità di progettazione, perché comporta la ricerca di soluzioni sempre nuove e infonde fiducia in se stessi.

“Essere o non essere? Questo è il problema!”

Sul senso della vita si interrogava anche Shakespeare, senza trovare una soluzione concreta. Questo perché, probabilmente, non esiste una sola risposta.

Di certo, aiutare chi il senso della vita lo ha perso a ritrovare la sua strada, fa del bene anche a noi. Ci aiuta a sentirci utili e importanti. A dare un significato profondo alla nostra esistenza e a quella di qualcun altro. Perché, come scriveva John Donne, “nessun uomo è un’isola” e sentirsi parte di qualcosa fa bene a chi allunga una mano e a chi la prende, allo stesso modo.

Facci caso: quando le dita si intrecciano, non si distinguerà più chi ha dato qualcosa a chi.

Aiutaci anche tu. Scoprirai qualcosa di te, che solo chi ha bisogno di te può restituirti. Ti aspettiamo.